Riprendiamo dal primo post sul
fallimento, per chi volesse rileggerlo eccolo qua: Il potere dei fallimenti e le strade verso casa - Prima parte ..e proseguiamo lungo questo tema.
L'accettazione dei fallimenti nella nostra vita, personali/relazionali/lavorativi, e l'accettazione della nostra umana fallibilità, ci permette di riconoscere e accettare i nostri confini e limiti, di comprenderne i significati. Prendere atto dei nostri confini concorre a strutturare la nostra identità.
Accettare i nostri fallimenti ci svela ad un rapporto autentico con noi, dove c'è spazio per il dialogo interiore, la resa e l'accoglienza di parti di noi; questo ci porta ad affrontare paure e difficoltà e ci apre alla vita più concretamente e quindi meno illusoriamente.
Fallire è umano.
Non darsi la possibilità di provare/di rischiare parla invece di un primo e più grande fallimento: quello rispetto alla fiducia in sé, ossia il non credere in se stessi e perciò non darsi il permesso nè di provare, nè di fallire, privandosi della possibilità di imparare dai fallimenti e farne tesoro per orientarsi nella vita.
Non darsi la possibilità di provare e di rischiare indica inoltre il fallimento della propria carica aggressiva, quell'energia propulsiva in termini di entusiasmo, forza, convinzione che guida alla propria realizzazione e che permette inoltre di proteggere i propri confini.
Sentirsi falliti già in partenza ha a che fare con complessi di inadeguatezza, indegnità, inferiorità, che bloccano alla base l'espressione di sé e la propria crescita. Questi complessi vanno a delineare un nucleo di sofferenza profondo, che può fare capolino attraverso emozioni come vergogna, senso di colpa e attraverso un'aggressività repressa e auto-diretta: impotenza, angoscia, vittimismo, passività, umore depresso, mancanza di forze.
Si tratta di una sofferenza, a volte sotterrata in fondo alle viscere e nei luoghi più nascosti di sé, che trae origine da esperienze infantili invalidanti dove, da bambini, ci si è sentiti umiliati o messi ripetutamente a confronto e svalutati, o bloccati nella propria espressione, magari perchè i propri genitori, per esempio, non tolleravano la manifestazione di certe emozioni, che mettevano a tacere, oppure perchè si sostituivano, facendoci sentire non in grado di apprendere o non degni di fiducia.
Per chi porta dentro questo nucleo di sofferenza, può riemergere la convinzione di essere falliti e inadeguati sia quando si raggiunge un traguardo che quando lo si fallisce: in entrambi i casi si riaccendono confronti e giudizi verso di sé, che mettono in guardia dall'esprimersi per ciò che si è e che si prova, come se la propria espressione avesse qualcosa di profondamente sbagliato.
La paura di fallire può portare ad auto-sabotarsi, magari distraendosi dai propri reali desideri e ricercandone altri, per reprimere quella spinta desiderante che fa sentire pienamente vivi ma che al tempo stesso spaventa. Ci si può proteggere in vari modi, magari inconsciamente, dal rischio di raggiungere ciò che si desidera profondamente e quindi dal rischio di poterlo perdere e fallire, tanta è la paura di non riuscire a sostenere il piacere quanto il dolore che ne potrebbero derivare. Una frase che riassume questo atteggiamento potrebbe essere: "non ce la posso fare (per n. motivi). E anche se ce la facessi, non riuscirei a sostenerlo".
Da queste considerazioni, approdiamo
alla domanda:
- se raggiungessi ciò che desidero, cosa mi potrebbe spaventare / cosa temo che succeda?
E' importante fare chiarezza su quanto
determinati complessi e convinzioni possano giocare un ruolo chiave
nell'invalidazione di sé e delle proprie esperienze.
Mi preme citare alcuni aspetti dell'esperienza di una mia paziente. Per la privacy, mi riferirò a lei chiamandola Alma (che non è il suo vero nome).
Alma temeva fortemente i distacchi e questo non le dava la libertà di esprimersi spontaneamente, né di ascoltarsi profondamente. Il suo grande bisogno di supporto parlava di quanto un supporto stabile fosse mancato nella sua infanzia e di quanto questa mancanza non avesse permesso la costruzione di confini abbastanza solidi da sentirsi al sicuro, in se stessa.
Estremamente creativa, sensibile e risonante rispetto all'umore e alle reazioni degli altri. Impietosa verso la sua fragilità. Si sentiva sbagliata, non a posto, indegna e conosceva molto bene le emozioni della vergogna e del senso di colpa; arrivava addirittura a dire: "gli altri mi devono sopportare" empatizzando prima con gli altri che con la sua sofferenza, così grande e quindi così difficile da avvicinare. Prevaleva perciò il disconoscimento di sé e il bisogno dell'altro; si sentiva sola e non abbastanza cercata, mentre non si accorgeva che il primo distacco era quello che imponeva a delle parti di sé: mancava a se stessa.
Questo importante nucleo di sofferenza sviliva la sua identità, la frammentava e frammentava la sua spinta vitale, che appariva come compressa in una pentola a pressione, altalenante fra chiusure e sfiati, fra blocchi e slanci sotto ai quali mancava terraferma.
Tendeva a confondere il suo non sentirsi degna con l'essere umile. Reprimeva la sua naturale carica aggressiva, necessaria per proteggersi e rispettarsi, trovando vari modi per sabotare le proprie ragioni; ne soffocava l'insofferenza che, quando emergeva, le restituiva, per alcuni istanti, una più lucida consapevolezza delle situazioni.
Il suo anelito verso la perfezione e l'essere buona sosteneva lo sviluppo di una zona d'ombra in lei, un punto cieco dove si concentrava tutta la ribellione che negli anni Alma aveva represso, nello sforzo di fare del suo meglio per sentirsi abbastanza. Questa parte ombra irrompeva a tratti nella sua vita e in maniera incontrollata, provocando in Alma un'estrema angoscia; la avvertiva come qualcosa di estraneo, malefico, sul quale sentiva di non avere alcun controllo: una carica inesplosa e dissociata, che agiva inconsciamente, prendendo le sembianze di un aggressore/sabotatore interno, un giudice inflessibile che faceva leva sulla sua paura.
Quando si dice "ho dovuto reprimermi perché se mi fossi espressa/o, sarei esplosa/o e non avrei controllato la mia reazione, tanta era la rabbia": si tratta di un pensiero consapevole, ma può anche essere una reazione inconscia che diventa un meccanismo di difesa e tiene così a distanza da ciò che di sé si percepisce pericoloso e si giudica sbagliato, come per esempio una forte rabbia.. tanto forte quanto forte è stato l'impedimento alla sua naturale espressione. Come risultato: si perde il contatto con questa fondamentale emozione, la rabbia, e con la carica aggressiva che la guida, un'energia necessaria alla propria salvaguardia. Ci si ritrova quindi vittime, di se stessi in primis.
Alma, nella sua vita, aveva subìto bullismo, violenza fisica e verbale. Senza il recupero della sua naturale carica aggressiva, era in pericolo. Questa carica era energia necessaria anche per tornare a credere in se stessa, era la forza che le avrebbe permesso di affrontare la vita più serenamente.
Nonostante i suoi ferrei divieti interni, negli occhi di Alma sembrava intravedersi l'espressione della bambina vitale e gioiosa che era stata. Era una fucina di idee e sogni, salvo purtroppo sabotarsi a un passo da alcuni traguardi; un grande entusiasmo e desiderio che potevano essere messi in ombra in un istante dalla paura.
Alma anelava da anni a un preciso posto di lavoro, ma per lei fu un problema quando riuscì ad ottenerlo: questo traguardo fece ri-emergere la sua paura di non essere all'altezza e, a livello più profondo, la pericolosa convinzione di non meritarlo; un senso di fallimento che chiudeva ogni spiraglio di possibilità. Inizialmente, si sentì sprofondare in una grande fragilità. Incredula di questa vittoria, ne percepiva il peso anzichè il piacere.
Emerse più chiaramente la sua parte ombra, questo aggressore/sabotatore interno che le faceva temere il peggio in ogni cosa e nel tentativo di proteggerla la ri-traumatizzava, mettendola in guardia "dal pericolo" delle nuove esperienze e riaccendendo la forza distruttiva dei suoi complessi: "Non sei degna.. non sei in grado di sostenere questo incarico".
Questi sabotatori possono gradualmente perdere il loro potere quanto più vengono riconosciute le emozioni che li guidano e i giudizi inflessibili alla base, un tempo subìti e ora interiorizzati.
I sabotatori interni controllano il bambino che eravamo e che vive in noi. Ma ora siamo anche l'adulto consapevole delle proprie capacità e delle tante esperienze vissute; possiamo prendere per mano il nostro bambino ferito e spaventato, imparare a proteggerlo e a dialogare con le paure. Il presente può essere meno spaventante e giudicante di quanto si teme.
La paura e il terrore che Alma provava invalidavano la bellezza della sua creatività e le sue capacità, che la distinguevano inoltre nel suo lavoro. Non aveva bisogno di acquisire altre competenze, bensì di credere alla realtà di se stessa e a ciò che già sapeva.
Per farlo, era necessario riconoscere la sua ombra, affrontarne la paura, abbandonarne i giudizi e integrarne la carica aggressiva che l'avrebbe sostenuta nella propria espressione.
Il coraggio di mettersi in gioco giunge con l'autorizzazione di sé. Autorizzarsi ad essere può costituire il filo conduttore di una vita.
Per un mio paziente, il percorso di psicoterapia si è rivelato sempre più chiaramente un percorso verso l'accettazione della propria fragilità, della propria fallibilità e anche della propria bontà, di cui in maniera più o meno inconscia dubitava.
Milo (anche in questo caso, non è il suo reale nome) da bambino subì maltrattamento, violenza fisica e verbale e abuso psicologico da parte di una madre dominante, insicura, intollerante alle emozioni del figlio, una donna che era stata essa stessa vittima nella propria infanzia. Di genitore in figlio, ci si passa a volte dolorosissime eredità finchè, prima o poi, un figlio non sceglie di spezzare questo ciclo di dolore e di affrontarlo.
Milo aveva reagito alla violenza e all'imprevedibilità materna strutturando massicce difese dissociative: si congelava interiormente, bloccando il contatto con le emozioni e le sensazioni.
Riconosceva una parte di sé inautentica che aveva eretto a difesa, una maschera con caratteristiche narcisiste come manipolazione e bisogno di dominio, spesa nella prestazione. Questa maschera lo proteggeva dall'entrare in contatto con la sua fragilità, che sentiva insostenibile, e dal rischio di esporsi agli altri.
Il suo percorso psicoterapeutico cominciò realmente quando lui, dopo pochi mesi dall'inizio, arrivò in seduta e mi disse, con tono risoluto: "io qui non ci verrò più, questa è la mia ultima seduta". Da allora Milo, dopo aver dato voce alle sue resistenze, iniziò un cammino verso la resa e l'accettazione.
Le difese erano forti e rispecchiavano il suo terrore ad abbandonarsi: ogni volta che ci si avvicinava a ricordi e a emozioni dolorose, dissociava, perdeva il filo, andava in confusione; oppure tossiva improvvisamente come in preda, per un istante, a una reazione allergica. La mente e il corpo non gli permettevano di entrare più di tanto in contatto. Certe dolorose consapevolezze gli provocavano, come reazione, l'effetto di un pugno allo stomaco: incassava pugni di dolore che sembravano sgretolare le sue barriere, allora gli occhi gli si inumidivano e arrivava l'eco di un pianto, ma il suo corpo si ricomponeva immediatamente, e così le sue difese. Comprendevo quanto fosse necessario procedere in punta di piedi e lavorare sulla costruzione di un terreno sempre più stabile sul quale si sarebbe potuto appoggiare, per tollerare rabbia, dolore e paure devastanti.
La tolleranza maturò poco per volta. Era accurato nel sentire e nell'intercettare i segnali del suo corpo, si poneva con curiosità verso se stesso e questo promosse l'affinamento di un ascolto di sé che dava riconoscimento e confine a quello che provava.
Per quanto al di fuori mostrasse un'immagine serena e sicura, quasi sfidante, a livello profondo Milo si sentiva ridicolo, in difetto e codardo; aveva la sensazione di essere non a posto, sporco, in torto ..e aveva paura di essere scoperto per questo. Alla base: l'intrusione, l'umiliazione e la violenza materna, mista alla mancanza di ascolto per i suoi bisogni, che lo avevano paralizzato interiormente, interrotto nell'espressione del piacere, così come nella sua spontaneità.
Ad un'infanzia costellata da tappi/blocchi, come a dire "non puoi essere te stesso liberamente, non puoi mostrarti per ciò che sei" seguì, in età adulta, la strutturazione di altri tappi; uno di questi fu l'alcol. Ciò che un tempo si è subìto, a un certo punto tende a diventare la propria difesa: questi tappi bloccavano l'energia e l'espressione di Milo, ma al tempo stesso lo proteggevano dall'entrare in contatto con il dolore; si sentiva spesso scarico, senza forze, inerme ed era forte il desiderio di essere supportato e sostenuto (questo era il sentire del suo lato bambino).
Temeva tanto il fallimento quanto il traguardo. Ricordo le sedute in cui mi parlava di soddisfazioni e traguardi personali nel lavoro, seguiti da ricadute nell'alcol: alla base, non si sentiva degno e non poteva tollerare i suoi successi, così distruggeva le sue soddisfazioni.. un tempo lo avevano fatto nei suoi confronti e ora era lui a porsi in lotta con se stesso.
Di pari passo, un'altra parte di lui muoveva verso la ricerca del benessere e della tenerezza. Nel tempo, Milo riuscì a.. continuare, a restare maggiormente in contatto con se stesso senza dissociare nei momenti di fragilità, a mollare sempre più il controllo e a spogliarsi della sua maschera, riconoscendo quanto questa maschera portasse al fallimento di una comunicazione e condivisione autentica con gli altri. Si aprì gradualmente alla sua fragilità, mentre crebbe in lui il desiderio di essere accettato per chi era realmente. Iniziò a mostrarsi più liberamente per come si sentiva, anche quando era stanco o triste o non al top e notava quanto gli altri rispondessero positivamente alla sua autenticità, anzi, diventavano a loro volta più morbidi e disponibili. Mostrare la sua umana fallibilità fu una conquista che lo aprì a una vita più piena e intensa. Smascherando e ammettendo le sue difese, si fece sempre più dono di se stesso.
Sentì il suo bisogno di tenerezza e la voglia di dare tenerezza; emersero le lacrime, le ferite e i riconoscimenti, il desiderio e la paura, che poco per volta poteva essere integrata. Accogliendo il dolore del bambino che era stato, maturò il distacco dalle proprie convinzioni invalidanti: il sentirsi ridicolo, in difetto, indegno; comprese quanto questi giudizi non avessero a che fare realmente con lui e prese posizione: "questa non è roba mia, mi è stata messa addosso! Lascio a loro le loro scelte, non è più una mia responsabilità e non dev'essere più un mio fardello". Fu una liberazione immensa che lasciò spazio a una leggerezza e a una disponibilità d'animo che lo portò a entrare in contatto con gli altri più profondamente.
Alcune scelte che un tempo avrebbe vissuto come rinunce o fallimenti, ora erano scelte consapevoli guidate dal riconoscimento di quanto fosse importante coltivare e preservare la sua energia, non disperderla per esempio in troppe attività che lo proiettassero nel futuro, ma vivere appieno la qualità delle esperienze che si sentiva, con meno aspettative: si stava rispettando.
L'abbandono delle sfide passate corrisponde a una conquista, anziché a un fallimento: una conquista di sé e del proprio presente.
Negli ultimi mesi, lo sguardo di Milo è cambiato: mentre prima era più statico, dai lineamenti levigati ma anche più tesi, nel tempo si è ammorbidito e ha ceduto a una maggiore ricchezza espressiva e vivacità; uno sguardo che accoglie e si appoggia, i cui lineamenti possono arrendersi alla stanchezza e rispondere maggiormente alle emozioni che affiorano.
Milo con sorpresa sta scoprendo la
libertà di potersi emozionare senza temere; il suo lato bambino sta
uscendo dall'immobilizzazione e può esprimersi, con a fianco la
sicurezza dell'adulto che è oggi e che sà dove sta andando. Scopre
quanto può auto-regolarsi. Accetta i momenti critici come parte
della vita, ma questo non distrugge le esperienze integranti, che
concorrono a tessere la trama dei suoi confini e la stabilità del
suo terreno; e gradualmente si sta dando il permesso di provare
piacere e soddisfazione, senza distruggerli.
Accettare di essere fallibili significa accettare di essere umani. Nell'accettazione, ciò che prima poteva avere il gusto di un fallimento, può acquisire tutto un altro significato.
Ringrazio "Alma" e "Milo" per quello che mi insegnano e che mi hanno insegnato attraverso il loro sentire, le loro reazioni e i loro passi e li ringrazio per l'autorizzazione a scrivere di loro.
Che questa narrazione possa accompagnare aperture verso di sé e riflessioni personali. A tutti auguro una buona continuazione.
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