A volte i fallimenti possono aiutarci a
prendere coscienza di aspetti che tendiamo a non vedere, permettono
di comprendere meglio in quale direzione stiamo andando o di
ricominciare in maniera più costruttiva.
I fallimenti fanno parte della
"sincerità della vita", favoriscono il crollo delle
illusioni e svelano determinate realtà per quelle che sono,
consentendo inoltre, a volte, di abbandonare sfide che non ci
appartengono più.
Portatori di significato, frenandoci ci
indicano una direzione.
Seppur dolorosi, possono aver molto da
insegnare se scegliamo di stare in ascolto di ciò che accade.
Il vittimismo (capitano tutte a me.. ),
il giudizio (sono tutti fatti così..), la rassegnazione (non c'è
niente da fare..) e varie convinzioni invalidanti sono reazioni
difensive che proteggono di fronte a un fallimento, giustificano e al
momento possono costituire una forma di consolazione, ma non
permettono di cogliere a fondo il significato del fallimento, né il
nostro atteggiamento alla vita e le emozioni che possono scaturire.
Stare in contatto, riconoscere e tollerare ciò che si prova ci mette a tu per tu con noi stessi e ci riconnette a delle parti
di noi che magari tendiamo a reprimere; questa riconnessione
favorisce importanti passi evolutivi.
Possiamo stare nell'esperienza del
fallimento anche ponendoci alcune domande e dando il tempo alle
risposte di maturare, senza fretta. Tra la chiusura difensiva e la
ricerca di soluzioni immediate, c'è un mondo in cui sostare, fertile
di significati.
Riporto in questo post (che avrà una
continuazione in una seconda parte) una prima domanda generale,
addentrandomi nelle esperienze di vita e di psicoterapia di due
pazienti:
- Voglio realmente perseguire questa
strada?
E perché, per quali motivi?
(Posso
provare a elencarli in ordine di importanza).
Chiederci questo aiuta a far chiarezza
su quanto siamo guidati dai nostri bisogni oppure condizionati da
aspettative esterne o da vari retaggi del passato.
Andiamo
quindi a mettere a fuoco dove ci collochiamo rispetto ai nostri
bisogni: quanto ne teniamo conto, quanto li coltiviamo e ci
ascoltiamo o quanto possono essere distanti da noi o passare in
secondo piano e rispetto a cosa?
E' invalidante quando, per non fallire riguardo a
determinate prerogative, falliamo riguardo all'espressione e allo sviluppo di noi
stessi, per quello che siamo e per come ci sentiamo.
I traumi e i divieti subìti per lungo
tempo lasciano segni; anche quando la crisi o la repressione è
finita, può attecchire un certo attaccamento alla
sopravvivenza che porta, per esempio, ad adeguarsi e a cercare
di resistere in una situazione nella convinzione che non ci possano
essere possibilità migliori o che non si possa dire di no, ecc.
Se la strada che garantisce
un'apparente sicurezza reprime i propri bisogni, desideri e
attitudini, il prezzo da pagare potrà essere in termini di
insoddisfazione, frustrazione, rabbia repressa, invidia, rassegnazione, stanchezza cronica, insonnia.
I condizionamenti sono come dei tiranti
che ostacolano lo slancio nella propria vita. Le scelte dettate dalla paura di.. possono allontanare da sé fino a perdere la
propria bussola, ossia la comprensione di dove si vuole realmente
andare; ci si può sentire quindi confusi, deboli, sfiduciati nelle
proprie capacità. Allora i fallimenti possono parlare, non della
propria incapacità ma del fatto che si è su una strada che potrebbe
non essere la propria ed è per questo che, magari, si sta procedendo
a fatica.
Possiamo trovarci impegnati a
sopravvivere quando lasciamo scegliere ai sensi di colpa o a
convinzioni e ideali che in realtà non sono i nostri, ma che hanno
influito potentemente sulle nostre scelte. Allora potremmo chiederci:
quanto sto vivendo la mia, di vita? Oppure sto vivendo la vita di chi?
O quanto mi rifletto in un'immagine a
cui cerco di adeguarmi?
Ci potremmo scoprire ad aspettare
ancora una qualche autorizzazione che vorremmo avere dall'esterno..o
dal passato. In realtà, è di noi stessi che abbiamo bisogno.
Posticipare la propria vita per sentirsi confermati non premia, ma anzi, aumenta dolorosamente il debito verso se stessi.Fortunatamente, a volte sono proprio i blackout e il raggiungimento di un certo limite di sopportazione che fanno scattare, come una molla, la propria tensione alla vita, una carica a lungo sacrificata che a un certo punto fa riemergere da certe situazioni. Un amico, parlandomi di sè, una volta mi disse: "mi sono trovato a un certo punto così compresso che la mia reazione è stata come quella dei pagliacci di pezza chiusi nelle scatolette con una molla sotto, che schiacciandoli saltano fuori! Così io, dopo aver toccato il fondo, sono riemerso con un'energia inattesa".
Proseguendo in questo argomento, cito la storia di una
paziente, una donna proveniente da una famiglia sopravvissuta
dal punto di vista economico (che attraversò importanti crisi sotto
questo aspetto) e sopravvissuta dal punto di vista affettivo: questa paziente fu una bambina poco vista e poco supportata affettivamente. In risposta a queste esperienze, Virginia (un nome
di fantasia, per garantirne la privacy) maturò un forte bisogno di
sicurezza dal punto di vista economico. Questo era un punto fermo per
lei e, anche se aveva un buon lavoro, non contemplava l'idea di
abbandonare una situazione sentimentale per vari aspetti
insoddisfacente, ma che le garantiva ulteriore certezza economica. Sembrava valere l'equazione denaro =
cibo = amore, un imprinting fissato nella sua memoria sin
dall'infanzia, una pericolosa quanto inevitabile sostituzione per
sopperire alla trascuratezza affettiva che aveva subìto. La bambina
che era stata aveva trovato nel fattore economico la terraferma e una
sorta di riconoscimento, un illusorio surrogato dell'affettività. Da
adulta, la sua affettività era stata mediata da questa implicita
equazione e aveva cercato l'amore con gli occhi di quella bambina,
ritrovando una situazione caratterizzata da particolari mancanze.
Inoltre, guidata dal bisogno di
"sistemare" la relazione e le carenze all'interno di
questa, Virginia consumava diverse energie in questa direzione,
proiettata in realtà verso il passato; questo atteggiamento la
sottraeva da un ascolto profondo di sé e non le permetteva di aprire
delle porte.
Era ricettiva e sapeva mettersi in
ascolto delle persone che aveva accanto; i suoi consigli si
rivelavano spesso ottime intuizioni; gli amici le rimandavano questa
sua sensibilità, ma lei non ci badava fintanto che restava
all'interno della sua zona di comfort: impegnata in
questo compromesso, non poteva dar credito a se stessa fino in fondo,
non poteva seguire le sue intuizioni, le sue qualità ricettive..
doveva rinunciare a parte di sé per adeguarsi ai bisogni di
sopravvivenza della sua parte bambina, per cui nelle relazioni
sentimentali prevaleva l'attaccamento rispetto all'amore.
Il suo conflitto interno, fra la
bambina che era stata e l'adulta di oggi, si manifestava attraverso
il disprezzo che emergeva a tratti verso di sé, nelle varie
auto-accuse, nell'incapacità a mollare il controllo e a mollare una
mente che non si arrestava e che andava a coprire la possibilità di
un dialogo profondo.
Al tempo stesso, però, la sua
relazione di coppia, caratterizzata da un certo distacco e mancanza
di dialogo, lasciava spazio ad altre occasioni di incontro e ad
esperienze di conoscenza di sé: si stava cercando.
Mentre nella
relazione appariva trascurata e non compresa, in queste esperienze
emergeva curiosità, entusiasmo, vitalità.. ritagliava i suoi angoli
di cielo. Questa energia, coltivata e convogliata in maniera sempre
più integrata, poteva avere il potere di fortificare gradualmente la
fiducia in se stessa, per andare a costruire un'altra terraferma,
fino a liberarla da quegli aspetti di attaccamento che la rendevano
insoddisfatta e che la facevano sentire in qualche modo delusa e
fallita.
E' importante cogliere i piccoli spiragli di luce all'interno di sé, dove c'è soddisfazione e armonia. Da lì, con cura e ascolto, possono aprirsi strade sempre più ampie.
Virginia aveva inoltre bisogno di
accettare e piangere un antico fallimento, legato alla delusione
dell'amore mancato nella sua infanzia; ciò che era stato non poteva
tornare, né risolversi.
La non accettazione di antichi fallimenti relazionali che abbiamo vissuto con le persone più care, con i nostri genitori, ci lega a una sfida impossibile: voler ottenere ciò che non si è avuto e che ormai non può tornare. Accettare il fallimento è una resa estremamente costruttiva: ci permette di mollare sfide impossibili per poter muovere verso l'accettazione di noi stessi ..e di ciò che è possibile.Virginia sapeva che i suoi attaccamenti comportavano la rinuncia a parte del suo essere, lo sapeva con la mente ma non lo sentiva con il corpo. Fino a quando non prendeva maggiore contatto con la sua vitalità, non avrebbe potuto sentire nemmeno la rinuncia a tutto questo.
E' quando la consapevolezza mentale si
unisce all'esperienza corporea che ci sentiamo spinti a un
cambiamento. E l'esperienza corporea ha i suoi tempi.
Virginia imparò molto precocemente a
fare da sè e ad asciugarsi le lacrime, a indurire parte di sé e a
rinunciarvi, per poter andare avanti. Ora eravamo in cerca della sua
vulnerabilità e morbidezza, che l'avrebbero rimessa in contatto sia
con il dolore della sua ferita che con l'entusiasmo perduto. Ma per
lasciarsi andare al suo sentire, era necessario costruire una base
stabile dentro di sé, darsi fiducia e accogliersi.
Procedendo nel suo percorso,
gradualmente iniziò a lasciar andare il giudizio rispetto alle sue
fragilità, a "lasciarsi respirare" a prescindere dalle
scelte che stava portando avanti. Questo fu un importante passo verso
se stessa. E si continua.
Il cambiamento che porta a diventare se
stessi e ad essere autonomi passa in primis dall'accettazione delle
proprie fragilità e di quel bambino smarrito e spaventato che è
dentro di sé e che tende ad "attaccarsi" al passato,
perchè è ciò che conosce, anche quando il passato garantisce una
sicurezza illusoria. A questo bambino è necessario costruire una
terraferma, per permettergli di camminare e crescere.
Dandoci fiducia e facendo esperienza
della nostra energia, comprendiamo di quanta forza e padronanza siamo
capaci e possiamo costruire la nostra terraferma che accompagna verso la nostra
auto-determinazione.
Riporto ora l'esperienza di un paziente,
Mattia (anche in questo caso si tratta di un nome di fantasia).
Sin da piccolo, Mattia fu talmente
schiacciato dalle aspettative dei suoi genitori da non aver avuto la
possibilità di riconoscere i propri bisogni, le proprie attitudini,
né di essere accettato per quello che era; veniva semmai accettato
in base a quanto esaudiva le aspettative altrui.
Era stato un bambino coccolato, ma
eccessivamente spronato in scelte dettate da altri, caricato di sensi
di colpa nel momento in cui le disattendeva, invaso e invalidato
nell'espressione dei suoi bisogni, barattati con bisogni esterni a
lui. Aveva interiorizzato una potente ingiunzione: "se seguo me
stesso farò star male gli altri, che non vorrebbero questo da me".
La soluzione era quindi il disconoscimento di sé e l'adesione ad un
modello esterno.
Le sedute di Mattia iniziavano spesso
con la preoccupazione riguardo alla sua forma fisica e
l'auto-rimprovero di doversi impegnare di più a livello sportivo,
come a livello lavorativo; non veniva risparmiata nemmeno la sfera
sentimentale da questo atteggiamento. Era costantemente proiettato
verso gli obiettivi, inflessibile e severo verso di sé, bisognoso di
conferme; così auto-punitivo da non riuscire più di tanto a
procedere. L'atteggiamento che aveva con se stesso, la poca o nulla
considerazione della sua interiorità, parlavano di quanto il suo
spirito fosse stato spezzato sin dalla tenerissima età.
Quando le pretese verso di sé non tengono conto dei bisogni, i risultati non saranno mai abbastanza soddisfacenti, l'impotenza appresa può diventare una risposta e la fatica di vivere può portare a rifugiarsi in piccoli vizi, dipendenze, modi a volte controproducenti di scaricare la tensione.. quantomeno per attutire le frustate che arrivano dai propri giudizi.
Per quanto riguarda Mattia, il suo vero
Sé, i bisogni e i desideri del fanciullo represso che era stato,
furono sepolti vivi e, inconsciamente, si ribellavano ai dettami del
suo inflessibile giudice interno, attraverso sintomi come
inconcludenza, insoddisfazione, insonnia, impotenza; un conflitto
estenuante. Solo diminuendo la sua auto-repressione poteva iniziare a
guardarsi per capire chi era davvero e cosa poteva interessargli
realmente.
Lavorando sul corpo, poco per volta
iniziò a fermarsi e a sentirsi, a prendere coscienza dei suoi
blocchi e della mole di rabbia repressa; le forti tensioni alla
schiena e alla base della nuca non permettevano la connessione e il
dialogo fra testa e corpo, fra doveri e bisogni, fra aspettative e
realtà del sentire, oltre a occludere l'espressione di sé, la possibilità di reagire e ribellarsi.
Il disconoscimento di sé era una
difesa dalla rabbia e dalla disperazione per ciò che gli era da
sempre stato negato.
Iper-mentalizzazione, un eloquio
frettoloso che non lasciava molto spazio al respiro e una lista
assicurata di auto-rimproveri: la tendenza a fuggire da sé era
talmente automatica che gli andava ricordato quasi continuamente che
esistevano anche i suoi bisogni, oltre che mettersi al centro di un
mirino. I movimenti del suo corpo manifestavano un certo sentirsi
esausto da questa continua fuga.
Man mano che diede spazio al respiro,
emerse gradualmente il bisogno di ritrovarsi, la fatica di liberarsi
dalla sua stessa gabbia, ma insieme, anche la curiosità verso di sè
e la graduale esplorazione dei suoi reali interessi. La percezione
che aveva di se stesso cambiò gradualmente. Si rese conto di quanto
le paure lo invalidassero e di quanto esistesse la possibilità di
affrontarle, man mano che esplorava il suo sentire. Prese contatto
con la paura di fare il primo passo, ma anche con la consapevolezza
che, oltre al primo passo, la strada diventasse più percorribile e
lui più leggero.
L'energia che sentiva
emergere nel lavoro corporeo iniziò a guidare intenzioni e idee, in
accordo con i suoi bisogni. Con gradualità e pazienza, era in atto
un processo di mobilitazione e sintonizzazione corporea, emotiva e
mentale.
In una situazione tanto costrittiva,
all'interno del lavoro corporeo in analisi bioenergetica, ogni
sbadiglio, ogni ammorbidimento, sono piccoli momenti di grazia che
introducono in un processo di apertura e consapevolezza che può
guidare verso "casa".
Ciò che può mobilitare davvero non
sono le pretese verso di sè, ossia l'essere diretti dall'esterno, ma
al contrario, il tornare a essere diretti dall'interno: ammorbidirsi
e permettere alla propria energia di fluire e guidare nei propri
movimenti, intenzioni, bisogni.. verso una sempre maggiore coerenza interna.
Non si può che fallire, a un certo
punto, fintanto che non ci si autorizza ad essere se stessi.
Il riconoscimento di questo fallimento
muove verso la ri-conquista di sé.
Come cambia l'esperienza quando la vita
gradualmente si accorda al proprio sentire e ci si concede il tempo
di essere, di provare e di sbagliare.. di tuffarsi nella propria vita, correndo il rischio di
sganciarsi da un passato, il lusso di soffermarsi e l'avventura di
affidarsi a sé.
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