Aveva scoperto cosa crea la "dipendenza" da zuccheri. E anche a quali suoi personali bisogni insoddisfatti si legava. Credeva, come le dicevano in tanti, che una volta "disintossicatasi" dagli zuccheri e riscoprendo il sapore naturale dei cibi, le potesse bastare questo.
Non le bastava affatto. Era chiaro che si trattasse di un bisogno profondo, che partiva da lontano e che non poteva essere semplicemente risolto con il cibo. Ma aveva comunque confidato di adattarsi col tempo. E invece no. Nonostante stesse meglio fisicamente, anelava nostalgica a ciò che non poteva avere. Prevaleva il senso di mancanza, di astinenza. E più praticava l'astinenza, più questa le dava prova dell'intolleranza. Quante notti sognava di immergersi tra dolciumi e piatti saporiti e già durante il sogno, dopo aver assaporato quelle leccornie, subentrava in lei un forte senso di colpa. Quando si risvegliava tirava un sospiro di sollievo all'idea che fosse solo un sogno e quindi di non dover intraprendere l'ennesima dieta senza un briciolo di zuccheri. Si perché ogni strappo che, molto raramente, si permetteva, lo pagava in salute. Era come se il suo corpo non ne accettasse un grammo di più. Perciò, ad ogni sgarro seguiva un percorso "depurativo". Quello che emergeva era un corpo che faticava ad assimilare, saturo di "contenuti pesanti" che avevano lasciato il segno. Era inoltre un corpo attraversato da differenti conflitti interni.
Non era mai stata anoressica, né bulimica. Semmai, la sua poteva rientrare nella cosiddetta personalità psicosomatica.
Ciò che più la attirava, le rivelava una tossicità. Ed era così non solo a livello alimentare, ma anche, il più delle volte, a livello affettivo. Il compromesso che aveva trovato, in una certa misura, era: trattenersi, astenersi. Questo compromesso a un certo punto la portava a sforare, per poi riprendere a trattenersi in maniera ancora più ferrea.
Era in uno stato di sopravvivenza, verso un'intolleranza sempre più stringente. Con tutta la verdura che mangiava si chiedeva come fosse possibile che bastasse talmente poco per mandare a monte tutto.
Dopo anni di apparentemente sana, ma comunque inappagante, alimentazione, consultò un noto nutrizionista che, osservando le sue analisi del sangue, le disse: "Fanciulla, tu mangi male. Hai sempre mangiato male. Troppi zuccheri". La donna si mise le mani nei capelli: come era possibile? E cosa doveva eliminare ancora dalla sua dieta?
Ma con stupore notò che lo schema alimentare consegnatole dal nutrizionista non era affatto restrittivo. Lì per lì non comprese. Anzi, bacchettò il nutrizionista sul fatto che diversi di quegli alimenti le avrebbero provocato gonfiore e sintomi che ben conosceva. Dovette farsi leggere questo schema da altri per comprendere meglio quanto stesse effettivamente continuando ad alimentarsi male, in quanto è vero che aveva tolto parecchi alimenti, ma di ciò che restava cercava sempre il lato dolce. E di questo atteggiamento continuava a non accorgersi: per esempio, mangiava parecchia verdura di stagione, ma solo quella dolce.
Questo nuovo schema alimentare, invece, prevedeva un'alimentazione più ampia e integrata, senza eccessive restrizioni, ma scegliendo alimenti alcalinizzanti, in maniera equilibrata. Così Clelia scoprì la cicoria, il radicchio, i ravanelli, e così via. Nel contempo, scoprì di potersi permettere altri alimenti da anni vietati nella sua dieta. Osservò quanto, in questo modo, non fossero più così "pericolosi" questi alimenti. Provò ad accogliere tutta quella fetta di "sapore" finora non contemplata.
Tutto questo non è per fare una lezione di alimentazione, di cui ovviamente non ho le competenze, e soprattutto non invito a seguire questo come consiglio alimentare. Ma da questo accenno alle vicende alimentari di questa persona, si intravede un parallelo, ossia: il rapporto con il cibo può delineare, in qualche misura, la relazione con gli affetti più significativi della propria vita e con i postumi che questi affetti hanno lasciato, delineando così le dinamiche interne che si intrattengono all'interno di sé.
Quante volte vediamo il pericolo nell'altro, senza accorgerci del nostro atteggiamento e del potere che questo ha nel concorrere alla relazione che si va a strutturare. Quante volte proiettiamo fuori da noi l'inaccettato che è in noi. O temiamo l'incontro con l'altro per evitare le nostre zone d'ombra.
Ostinarsi a ricercare il lato "dolce" della vita può favorire "acidità". In altri termini: accettare, aspettarsi, contemplare solo il buono della vita, può alimentare delusione, insoddisfazione, amarezza, frustrazione, astinenza, rifiuto, isolamento. La verdura non fa semplicemente bene (o male). C'è la verdura dolce e quella amara. Così come ogni aspetto della vita, ogni persona, ha parti luminose e parti in ombra, lati morbidi e lati rigidi, lati "risolti" e "irrisolti".
La prima differenza la fa quanto siamo disposti ad accogliere la realtà nei suoi diversi aspetti. Quanto più accettiamo la realtà, tanto più possiamo tollerarla e non solo: scoprire il gusto dell'inaspettato, che si svela nel lasciarci andare con più fiducia alla vita.
Con gioia Clelia scoprì quello che da sempre aveva sotto gli occhi ma che non era mai riuscita a vedere: tutti quei cibi trascurati dei quali in parte non conosceva nemmeno il sapore. E scoprì di sentire la bocca addolcita dopo un'insalata di cicoria, pronta ad accogliere la ricotta di pecora che si era negata per anni. Scoprì la bellezza dei contrasti. La accolse. E si sentì più accolta lei stessa, meno "divisa" dagli altri. Più inclusa, ora che stava imparando ad includere, con meno timore e più equilibrio e radicamento.
Nel tempo, osservò come la questione principale fosse al di là di "chi" o "cosa" incontrava. La questione principale era il "come" lei si rapportava con ... ossia, quanto si sentiva di accogliere la verità per ciò che era, oltre giudizi protettivi e divisivi.
La possibilità di "assimilare, integrare" faceva parte di un atteggiamento alla vita. Era questo un "potere" che non aveva potuto scoprire, da bambina, in quanto era impegnata a doversi difendere. Il mondo e gli affetti importanti erano stati, in certa misura, pericolosi. Il suo atteggiamento fu pertanto condizionato da questa necessità di proteggersi, dando luogo a una suscettibilità che talvolta la relegava nel territorio dell'impotenza, dove non poteva far altro che "astenersi" in certa misura, da un contatto che poteva scottarla.
Dovette passare dal corpo e dalle cose semplici e concrete per comprendere, sempre più a fondo, quanto il mondo di oggi non fosse più quello di ieri. E quanto la bambina indifesa che era stata, poteva oggi prendersi quel potere che naturalmente aveva, lasciando che il corpo poco per volta abbandonasse quell'allerta debilitante e consolidata, ma non congenita, per lasciare spazio alla fiducia e al sapore della vita, il sapore di oggi.
Scoprì quanto amore congelato c'era nel suo irrigidimento; quanto desiderio nella paura: un desiderio immobilizzato nella paura e nell'apatia. Ma lo scoprì solo provando a smuovere questa "immobilità", solo quanto fu disposta a incontrare l'incognita, munita di fiducia e accettazione. E permettendosi di provare osservò quanto poteva regolare, con cura e ascolto, la paura e il desiderio, accogliendo quanto fossero inscindibili. E soprattutto: possibili, da vivere. Entrambi.
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