La vera sofferenza è imporsi di non soffrire.
..."non posso arrabbiarmi o farmi vedere arrabbiata-arrabbiato / non posso permettermi di vivere il dolore che ho dentro / non posso manifestare più di tanto il mio dissenso".
Allontanare da sé le emozioni di dolore, tristezza, rabbia che naturalmente ci si trova a vivere, scegliere di non viverle, è invalidante per sè e per le proprie relazioni.
La vera sofferenza è vivere le proprie relazioni sotto scacco della paura .."mi comporto così perché altrimenti potrei essere abbandonata/o, umiliata/o, rifiutata/o...".
La vera sofferenza è evitare il conflitto. Il conflitto fa parte della vita ed è l'apripista delle relazioni profonde, in quanto dà spazio ad una relazione autentica, ne approfondisce il legame, definisce i propri e altrui confini; affrontare il conflitto permette di comprendersi, di riconoscere il proprio valore e il valore dell'altro, di costruire il rispetto, esprimendo i propri bisogni, le proprie incomprensioni, dialogando sul proprio sentire, portando la propria soggettività all'interno della relazione.
Che sapore ha una relazione quando una persona si plasma in base alle aspettative altrui? Cosa si può scoprire dell'altro nel momento in cui parte della sua realtà viene nascosta e mascherata da rigide regole di comportamento?!
Ci si innamora delle persone, ma non ci si può innamorare delle maschere, né delle regole di comportamento. Una certa immagine può attirare, ma i sentimenti sono qualcosa di vivo che scorre e che risuona con la vita che incontra, non con i "dover essere".
Noi donne siamo maggiormente soggette a certi retaggi e purtroppo accade di perdere di vista quanto alcuni condizionamenti, ben radicati e consolidati, siano dannosi e non abbiano a che fare con la nostra natura, con la nostra genuina spontaneità.
La vera sofferenza è collocare i propri conflitti all'esterno .."sono gli altri che mi fanno del male, i cattivi; sono gli altri a sbagliare, …". Questo atteggiamento ostacola la possibilità di prendersi la responsabilità e il potere di cambiare le cose; alimenta il vittimismo, l'ossessione, il lamento, la propria gabbia nella quale si ha una qualche parvenza di sicurezza. Ci si protegge dal proprio "male" collocandolo fuori da sé (benché ci siano cose che non si possono cambiare all'esterno).
Non si può fuggire da se stessi, dai propri conflitti, dalle proprie emozioni difficili. Le si può rimuovere, si possono togliere alcuni colori, alcune sfumature dalla propria vita, che risulterà allora più sbiadita, insapore, o più fatta di bianchi e neri, antitesi, restrizioni.. ogni negazione concorre a creare la sbarra di una gabbia che divide da certe parti di sé, le lascia all'esterno, così che "il cattivo", il "male" resta fuori dalla propria gabbia; non si vede che proprio quel male tiene in pugno il proprio bambino smarrito, arrabbiato, disperato, addolorato; le emozioni orfane.
Che sofferenza, dividere rigidamente ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. È un atteggiamento che protegge difensivamente dal contatto con determinate emozioni che naturalmente fanno parte di sé ..bianchi, neri, svariate sfumature che non si riescono ad accettare. Questa divisione si serve di confronti, di giudizi, con i quali ci si allontana dal contatto.
Parte della propria forza risiede nel riconoscimento della propria fragilità e delle proprie emozioni "difficili".
L'amore convive con l'accettazione della realtà che quell'amore si potrà perdere.
Se ci arrendiamo all'esperienza della gioia, accogliamo anche la sua emozione complementare.
Nulla è fisso nella vita, ciò che si prova può non essere eterno, può morire. La morte ci ricorda la vita. Non possiamo disgiungere ciò che naturalmente convive. Questa convivenza di opposti, questa moltitudine di colori, dà anzi tridimensionalità alla vita, profondità.
Se non vogliamo che il nostro dolore si trasformi in una sofferenza che ci accompagna, in un demone estraneo a noi stessi, che tiene la nostra vita sotto scacco del controllo o dell'angoscia, proviamo a non escluderlo, ossia a tollerare la possibilità che il dolore, la rabbia, la tristezza siano emozioni che possano accadere.. così lasciamo accadere ogni altra emozione. Non escludendo, ma accettando che possa esistere.
Il respiro si libera, l'esperienza prende corpo nel momento in cui lasciamo che i neri possano convivere a fianco ai bianchi; entrambi, ognuno a proprio modo, racchiudono la somma di tutti i colori.
Ogni nostra emozione ha un valore, un significato che contiene in sé anche il suo opposto (lo si osserva inoltre nell'etimologia dei termini).
Riconoscere la realtà per ciò che è, permette aprirci ad essa.. di vivere e onorare la nostra esistenza.
..."non posso arrabbiarmi o farmi vedere arrabbiata-arrabbiato / non posso permettermi di vivere il dolore che ho dentro / non posso manifestare più di tanto il mio dissenso".
Allontanare da sé le emozioni di dolore, tristezza, rabbia che naturalmente ci si trova a vivere, scegliere di non viverle, è invalidante per sè e per le proprie relazioni.
La vera sofferenza è vivere le proprie relazioni sotto scacco della paura .."mi comporto così perché altrimenti potrei essere abbandonata/o, umiliata/o, rifiutata/o...".
La vera sofferenza è evitare il conflitto. Il conflitto fa parte della vita ed è l'apripista delle relazioni profonde, in quanto dà spazio ad una relazione autentica, ne approfondisce il legame, definisce i propri e altrui confini; affrontare il conflitto permette di comprendersi, di riconoscere il proprio valore e il valore dell'altro, di costruire il rispetto, esprimendo i propri bisogni, le proprie incomprensioni, dialogando sul proprio sentire, portando la propria soggettività all'interno della relazione.
Che sapore ha una relazione quando una persona si plasma in base alle aspettative altrui? Cosa si può scoprire dell'altro nel momento in cui parte della sua realtà viene nascosta e mascherata da rigide regole di comportamento?!
Ci si innamora delle persone, ma non ci si può innamorare delle maschere, né delle regole di comportamento. Una certa immagine può attirare, ma i sentimenti sono qualcosa di vivo che scorre e che risuona con la vita che incontra, non con i "dover essere".
Noi donne siamo maggiormente soggette a certi retaggi e purtroppo accade di perdere di vista quanto alcuni condizionamenti, ben radicati e consolidati, siano dannosi e non abbiano a che fare con la nostra natura, con la nostra genuina spontaneità.
La vera sofferenza è collocare i propri conflitti all'esterno .."sono gli altri che mi fanno del male, i cattivi; sono gli altri a sbagliare, …". Questo atteggiamento ostacola la possibilità di prendersi la responsabilità e il potere di cambiare le cose; alimenta il vittimismo, l'ossessione, il lamento, la propria gabbia nella quale si ha una qualche parvenza di sicurezza. Ci si protegge dal proprio "male" collocandolo fuori da sé (benché ci siano cose che non si possono cambiare all'esterno).
Non si può fuggire da se stessi, dai propri conflitti, dalle proprie emozioni difficili. Le si può rimuovere, si possono togliere alcuni colori, alcune sfumature dalla propria vita, che risulterà allora più sbiadita, insapore, o più fatta di bianchi e neri, antitesi, restrizioni.. ogni negazione concorre a creare la sbarra di una gabbia che divide da certe parti di sé, le lascia all'esterno, così che "il cattivo", il "male" resta fuori dalla propria gabbia; non si vede che proprio quel male tiene in pugno il proprio bambino smarrito, arrabbiato, disperato, addolorato; le emozioni orfane.
Che sofferenza, dividere rigidamente ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. È un atteggiamento che protegge difensivamente dal contatto con determinate emozioni che naturalmente fanno parte di sé ..bianchi, neri, svariate sfumature che non si riescono ad accettare. Questa divisione si serve di confronti, di giudizi, con i quali ci si allontana dal contatto.
La vera sofferenza è la difesa, la non accettazione di parte delle proprie emozioni, dei propri sentimenti, delle proprie sensazioni somatiche.. e anche dei propri sbagli, perchè sbagliare è naturale. La più grande sofferenza non è la rabbia, la tristezza, il dolore per determinate esperienze, ma la paura che copre quelle emozioni, che non permette loro di svolgere la loro naturale funzione, non permettendo di camminare più liberamente.
L'allontanamento delle proprie emozioni dolorose ostacola l'elaborazione dei lutti (per lutto si può intendere ogni perdita nella propria vita, anche la perdita di fiducia).
Parte della propria forza risiede nel riconoscimento della propria fragilità e delle proprie emozioni "difficili".
L'amore convive con l'accettazione della realtà che quell'amore si potrà perdere.
Se ci arrendiamo all'esperienza della gioia, accogliamo anche la sua emozione complementare.
Nulla è fisso nella vita, ciò che si prova può non essere eterno, può morire. La morte ci ricorda la vita. Non possiamo disgiungere ciò che naturalmente convive. Questa convivenza di opposti, questa moltitudine di colori, dà anzi tridimensionalità alla vita, profondità.
Se non vogliamo che il nostro dolore si trasformi in una sofferenza che ci accompagna, in un demone estraneo a noi stessi, che tiene la nostra vita sotto scacco del controllo o dell'angoscia, proviamo a non escluderlo, ossia a tollerare la possibilità che il dolore, la rabbia, la tristezza siano emozioni che possano accadere.. così lasciamo accadere ogni altra emozione. Non escludendo, ma accettando che possa esistere.
Il respiro si libera, l'esperienza prende corpo nel momento in cui lasciamo che i neri possano convivere a fianco ai bianchi; entrambi, ognuno a proprio modo, racchiudono la somma di tutti i colori.
Ogni nostra emozione ha un valore, un significato che contiene in sé anche il suo opposto (lo si osserva inoltre nell'etimologia dei termini).
Riconoscere la realtà per ciò che è, permette aprirci ad essa.. di vivere e onorare la nostra esistenza.
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