Questa epoca sembra così preoccupata a sfuggire dal confronto con i sentimenti dolorosi, legati
in estremis alla paura della morte, da rischiare di restare "sganciati" da sé, anche in un momento come questo, in cui la morte irrompe in maniera tanto cruenta ed evidente.
Siamo circondati da dolori indicibili, suoni di ambulanze che accendono campanelli d'allarme. E magari si può essere tentati di credere che il problema del momento sia l'ansia, mentre si evita il confronto con il dolore della morte e della perdita.
Non è un film.
Ci si può essere allontanati così tanto gli uni dagli altri, da arrivare quasi a non sentire l'eco tremendo delle morti agghiaccianti e solitarie di adesso, in mezzo al caos. In mezzo a noi.
Quanto si riesce a tenere gli occhi aperti e a non irrigidire quel muscolo che mantiene in vita
e la vita? Il cuore.
Siamo chiamati al confronto con la fragilità e con il tema della morte.
Una società che scaccia tutto ciò che non è TOP o performante, che non ama confrontarsi con il dolore, è una società che rischia di essere vittima dei disturbi d'ansia.
Nel chiudere le porte al dolore, ci si "distrae" con il problema dell'ansia, mentre si avrebbe tanto bisogno di "riconoscersi" e piangere profondamente.
Il pianto avvicina e fa prendere coscienza.
Sono accaduti tragici quelli di oggi, tremendi, inimmaginabili.
Gli istanti prima della morte meriterebbero uno spazio sacro, condiviso, inviolabile, l'accompagnamento amorevole dei cari, che toglie appigli a ogni difesa e si fa vicinanza;
la sacralità del saluto sancisce la presenza dell'altro nei cuori. Ma qui non può essere così, queste morti non sono come le altre.
Se la realtà sembra un film, l'ansia e l'anestesia emotiva sono il prezzo da pagare per sostenere questo imbroglio (un film, che non è).
I sintomi ansiosi parlano della paura di un confronto; creano quello strato difensivo ottimale rispetto all'accesso ai propri sentimenti dolorosi e a un respiro profondo. Quanto è profonda la vita quando il respiro teme la discesa nelle viscere?
Il blocco, la paura, il panico, la mancanza di significato, troverebbero "conforto" nell'abbandono a un pianto profondo, quanto profonde sono le viscere.
Si crede davvero di poter sfuggire al dolore della perdita?
Se è così, stiamo sfuggendo a noi stessi, o meglio, alla parte più umana di noi,
la stessa che tiene connessi al senso della vita.
Il pianto scioglie le difese, riavvicina all'amore.
Abbiamo bisogno di piangere i nostri morti. Di prenderne coscienza. Non abbiamo bisogno di dimenticare, non dovremo dimenticare, o negare il significato di quello che sta succedendo,
per l'amore che ci lega e per il mondo intero.
"Andrà tutto bene" fintanto che ci si prepara ad accogliere la realtà di questo "male" in un pianto profondo.
Il futuro distacco da questo "male", non si farà di negligenze o distrazioni, ma di dolore riconosciuto.
Dal "prenderla di petto" al "prenderla di pancia".
Proviamo a lasciar bussare le paure ataviche e i dolori innominabili, che non vadano a sostare troppo nella mente, ma possano scendere nella pancia, quel luogo dove trovare compassione, conforto, liberazione.
Sono le porte a quella compassione che ci uniscono alla collettività.
in estremis alla paura della morte, da rischiare di restare "sganciati" da sé, anche in un momento come questo, in cui la morte irrompe in maniera tanto cruenta ed evidente.
Siamo circondati da dolori indicibili, suoni di ambulanze che accendono campanelli d'allarme. E magari si può essere tentati di credere che il problema del momento sia l'ansia, mentre si evita il confronto con il dolore della morte e della perdita.
Non è un film.
Ci si può essere allontanati così tanto gli uni dagli altri, da arrivare quasi a non sentire l'eco tremendo delle morti agghiaccianti e solitarie di adesso, in mezzo al caos. In mezzo a noi.
Quanto si riesce a tenere gli occhi aperti e a non irrigidire quel muscolo che mantiene in vita
e la vita? Il cuore.
Siamo chiamati al confronto con la fragilità e con il tema della morte.
Una società che scaccia tutto ciò che non è TOP o performante, che non ama confrontarsi con il dolore, è una società che rischia di essere vittima dei disturbi d'ansia.
Nel chiudere le porte al dolore, ci si "distrae" con il problema dell'ansia, mentre si avrebbe tanto bisogno di "riconoscersi" e piangere profondamente.
Il pianto avvicina e fa prendere coscienza.
Sono accaduti tragici quelli di oggi, tremendi, inimmaginabili.
Gli istanti prima della morte meriterebbero uno spazio sacro, condiviso, inviolabile, l'accompagnamento amorevole dei cari, che toglie appigli a ogni difesa e si fa vicinanza;
la sacralità del saluto sancisce la presenza dell'altro nei cuori. Ma qui non può essere così, queste morti non sono come le altre.
Se la realtà sembra un film, l'ansia e l'anestesia emotiva sono il prezzo da pagare per sostenere questo imbroglio (un film, che non è).
I sintomi ansiosi parlano della paura di un confronto; creano quello strato difensivo ottimale rispetto all'accesso ai propri sentimenti dolorosi e a un respiro profondo. Quanto è profonda la vita quando il respiro teme la discesa nelle viscere?
Il blocco, la paura, il panico, la mancanza di significato, troverebbero "conforto" nell'abbandono a un pianto profondo, quanto profonde sono le viscere.
Si crede davvero di poter sfuggire al dolore della perdita?
Se è così, stiamo sfuggendo a noi stessi, o meglio, alla parte più umana di noi,
la stessa che tiene connessi al senso della vita.
Il pianto scioglie le difese, riavvicina all'amore.
Abbiamo bisogno di piangere i nostri morti. Di prenderne coscienza. Non abbiamo bisogno di dimenticare, non dovremo dimenticare, o negare il significato di quello che sta succedendo,
per l'amore che ci lega e per il mondo intero.
"Andrà tutto bene" fintanto che ci si prepara ad accogliere la realtà di questo "male" in un pianto profondo.
Il futuro distacco da questo "male", non si farà di negligenze o distrazioni, ma di dolore riconosciuto.
Dal "prenderla di petto" al "prenderla di pancia".
Proviamo a lasciar bussare le paure ataviche e i dolori innominabili, che non vadano a sostare troppo nella mente, ma possano scendere nella pancia, quel luogo dove trovare compassione, conforto, liberazione.
Sono le porte a quella compassione che ci uniscono alla collettività.
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