Caccia al colpevole, anestetizzazione ..solidarietà

Ho l'impressione che il trauma collettivo che stiamo vivendo sveli anche l'anestesia emotiva e il tentativo di scaricare la rabbia che si osserva in certi atteggiamenti.
Premetto che sono ovviamente a favore dell'informazione libera e mi rendo conto della precaria situazione sanitaria, ma mi chiedo anche: quanto la caccia al colpevole può costituire una reazione difensiva al dolore e ai lutti di questi giorni?
Stiamo attraversando qualcosa di tanto tremendo: lo "sentiamo"?
O quanto siamo intenti a "combattere" contro un nemico (forse, nel tentativo meno consapevole di controllare emozioni che potremmo avvertire ingestibili)?

La paura si gestisce combattendola?
Il dolore si gestisce distraendosi?

Il riconoscimento delle emozioni angoscianti e l'immenso dolore della "perdita", sono "movimenti" che aprono all'umanità e mobilitano ad azioni costruttive, in quanto partono da un'empatia di fondo e da un senso di appartenenza che può farsi motore di cambiamento.
"Non è successo a me ma sta succedendo ad altri come me!".
Il dolore riconosciuto rende solidali e disponibili a "vedere" l'entità del problema, senza censure. Abbiamo bisogno di solidarietà e compassione, fortemente.

Minimizzare o dare la caccia al colpevole sono comportamenti che possono occultare le emozioni dolorose, come uno scudo che anestetizza o che alimenta divisione e odio.
Un'emozione che copre il dolore è proprio quella della rabbia; da qui la ricerca del "colpevole" sul quale scaricare la propria tensione.
La rabbia dà vigore. Ma quando diventa un mezzo automatico di controllo sulle altre emozioni, non fa che tenere incollati ai propri conflitti. Si autoalimenta. E distrae.
Rispetto a questo, è anche importante riconoscere il rischio di proiettare i propri conflitti personali su questa situazione: allora potremmo combattere contro lo spettro del passato, perdendo di vista la complessità del presente.
Sicuramente, una situazione fuori controllo può innescare estremi tentativi di controllo e atteggiamenti difensivi; è comprensibile ed è bene riconoscerli.

Ricordiamo che il controllo limita l'umanità e sostiene l'evitamento delle emozioni.
Entrare in contatto con il dolore, prima o dopo, sarà inevitabile, ma permetterà di uscire da questa situazione: prendendone atto e prendendo atto della fragilità umana.

Personalmente, sento il bisogno di prendermi uno spazio di silenzio nella giornata, in cui predispormi a un contatto empatico con me stessa e verso chi starà vivendo i momenti più critici; posso esprimere parole accoglienti, messaggi di speranza, una sorta di preghiera fatta di parole che provengono dal mio sentire; questo mi fa prendere contatto anche con la mia fragilità.
L'ho sentito fare da una famiglia accanto: non c'erano critiche, né lamentele, c'erano emozioni nude e crude vissute insieme e un anelito di speranza per tutti. Sentirli mi ha aperto il cuore.
Lo scrivo qui a tutti come una proposta, di cui ognuno potrà fare esperienza a suo modo.
È una proposta di umanità, di fiducia verso un miglioramento e anche di resa alle proprie difese.

Cosa potrebbe succedere, in noi e nelle nostre relazioni, se ci arrendessimo a questo contatto?



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