Vittime e carnefici. Quanto ci si riconosce?

In queste righe mi riferisco alle relazioni e, in particolar modo, alle relazioni di coppia nelle quali si instaurano i ruoli di vittima e carnefice. "Vittima" e "carnefice" sono due termini assai riduttivi, ma citando questi ruoli può risultare più immediato comprendere alcune caratteristiche e dinamiche spesso alla base di queste relazioni. Che ognuno prenda ciò che sente buono o interessante per sé. L'obiettivo è quello di aprire domande che diano spazio alla riflessione.


Vittima e carnefice.
Ferite profonde e bisogni immensi.
Bisogno di attenzione, conferma, riconoscimento, cura.
Amore mancato.
La mancanza di questo nutrimento ha scavato profondi solchi; abissi, la cui necessità di riempimento può dirigere una vita.
Ma i bisogni profondi che gridano soddisfacimento all'esterno, coltivano l'ego e censurano la profondità.
Dietro al bisogno, quanto è grande la paura di lasciarsi andare alla profondità di un sentimento?
Quanto questo lasciarsi andare può evocare la paura di una perdizione senza ritorno?
Come si può "muovere" realmente nell'altro, ciò che in sé resta fermo o che si teme fortemente?

L'AMORE.
"Il mio era amore" racconta il carnefice alla vittima. O era forse bisogno di conferma e attenzione? Quanto questo bisogno ha mosso la teatralità, la menzogna o la manipolazione?
"Il mio è amore" reclama la vittima. E se fosse il bisogno affettivo di un bambino conservato nel corpo di un adulto che, per paura di attraversare il doloroso smarrimento del passato, si tuffa nell'illusione presente di essere salvato? O nel bisogno di salvare l'altro?
Sono domande forti, apparentemente assurde. Ma scendendo in profondità e lasciandosi andare al sentire, qualora si fosse sperimentata la posizione di vittima o carnefice con il dolore che ne comporta, quanto queste domande potrebbero risuonare con i bisogni di una parte di sé?

Mentre nel carnefice si osserva la rinuncia dell'amore, nascosta e camuffata, sostituita dal bisogno di controllo e conferma, nella vittima può premere il bisogno di fusionalità e amore totalizzante.
Entrambi anelano, ma partono da una mancanza d'amore.
Entrambi riconoscono e intercettano le mancanze d'amore dell'altro.
Ma, mentre l'uno crede di poter compensare le proprie mancanze e/o quelle dell'altro, l'altro se ne serve.

Entrambi mentono: chi a se stesso e chi all'altro.
Non è amore se si arriva a negare l'amor proprio, se i propri confini vengono violati, negati o ridisegnati continuamente in base all'altro. Ma bisogno, paura di abbandono, paura di farcela autonomamente.
Così, vestirsi di attenzioni, lodi o superiorità, non è amore per sé. Ma bisogno, paura di contattare la propria solitudine.
Umiliare l'altro, non è amore per sé. Ma aggressione al proprio senso di umiliazione interna.

Le attenzioni scivolano tra la vittima e il carnefice, fino allo svelamento di tragiche e dolorose ombre.
Chi ama davvero?
Chi "si" ama.

Entrambi, in questi ruoli, hanno smarrito quel genuino legame con la SPERANZA nei confronti dell'amore.
La speranza, per il carnefice, si è persa nel momento in cui ha sepolto la sua ferita. Ha smesso di amare, per non rischiare di ri-sentire l'eco del proprio amore lontano tradito, umiliato.
Per la vittima, la speranza d'amore rischia di confondersi con l'illusione: l'illusione di potersi mettere nelle mani dell'altro, che la amerà e la risarcirà dell'amore mancato. Risarcirla. Un'enorme responsabilità. In mano altrui.
Chi potrebbe accorgersi e caricarsi di un grande amore mancato?
Chi lo può riconoscere. Ma chi lo riconosce potrebbe portare una simile mancanza d'amore. Potrebbe riconoscerlo chi se ne potrebbe servire per i propri fini, per il proprio nutrimento narcisistico.
Questo aumenterà la profondità dell'abisso per la vittima e promuoverà il ripetersi di un trauma.

Entrambi hanno smarrito un genuino rapporto con l'UMANITA'. Chi per se stesso, chi per l'altro.
Mentre per la vittima, il suo carnefice può essere "tutto",
per il carnefice, la vittima diventa "mezzo", "oggetto".
Entrambi negano una verità salvifica: 
ognuno è il primo e l'unico a poter sanare davvero le proprie ferite, perché ognuno è il Soggetto della propria esistenza. 

Non esiste "oggetto" che possa intessere abbastanza lodi da soddisfare totalmente, né amore totalizzante che riempia i vuoti di un bambino che bambino non è più.
Cosa potrebbe accadere se la vittima si accorgesse che nessuno può salvarla da se stessa, dal proprio vuoto?
E se il carnefice aprisse gli occhi sulla soggettività di ognuno?

E' di vitale importanza, allora, recuperare il legame con la verità del proprio sentire, con la propria umanità e la speranza, che possono condurre all'amore verso se stessi.
In ogni vittima c'è un carnefice, che la relega alla posizione di vittima. Un carnefice interno da riconoscere.
In ogni carnefice, c'è una vittima che egli non vuole più vedere, per non ritoccare un dolore troppo grande. Ogni carnefice è stato prima di tutto vittima.
Uscire dai ruoli, osservarli e, allo stesso tempo, scendere in contatto con il proprio sentire, permette di vedere le parti di sé che sostengono e perpetuano questi ruoli.
Vittima e carnefice non saranno liberi finché non permetteranno ai riflessi esterni di aprire spiragli al proprio interno, nei propri vuoti, nelle proprie parti doloranti e dimenticate, per arrivare alla presa di coscienza e "di esperienza" che ogni cosa è prima di tutto dentro di sé e che nulla di esterno potrà nutrirli o riempirli davvero, se non sono loro i primi a darsi, nel loro intimo, il riconoscimento mancato.
Che i riflessi dei bisogni dell'altro possano aprire la strada verso di sé.
La direzione dell'amore a volte è contraria a quella del bisogno.
La si può riconoscere nella resa alla propria profondità e nel coraggio, apparentemente silenzioso, a prendersi cura di se stessi.
Fuori dal copione. Dentro di sé.







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