Quando un genitore non è pronto e non riesce a sintonizzarsi sui bisogni del bambino, quando determinate sue attenzioni sono carenti, o vissute come un dovere, dall'affetto alla considerazione dei suoi bisogni, dalla motivazione all'incoraggiamento nei suoi confronti, il bambino andrà a intercettare questo atteggiamento e oltre a sentirsi non riconosciuto, non meritevole di affetto incondizionato, potrà sentirsi responsabile dell'insoddisfazione del genitore.
La mancanza di riconoscimento si riferisce a coloro che nella propria infanzia hanno sperimentato, da parte dei propri genitori un certo grado di deprivazione o trascuratezza affettiva, una presenza instabile del genitore a livello concreto e/o affettivo, una distanza emotiva più o meno evidente, un’affettività ambivalente o comunque non stabile nel tempo, e soprattutto una difficoltà di ascolto e di sintonizzazione (da parte del genitore sui bisogni reali del bambino).
La mancanza di riconoscimento si riferisce a coloro che nella propria infanzia hanno sperimentato, da parte dei propri genitori un certo grado di deprivazione o trascuratezza affettiva, una presenza instabile del genitore a livello concreto e/o affettivo, una distanza emotiva più o meno evidente, un’affettività ambivalente o comunque non stabile nel tempo, e soprattutto una difficoltà di ascolto e di sintonizzazione (da parte del genitore sui bisogni reali del bambino).
Ciò può essere dovuto al fatto che la
nascita del figlio non fosse prevista o desiderata (anche inconsciamente), alla
presenza di depressione da parte del genitore, a fattori esterni (lavoro ecc.),
al tipo di atteggiamento e comportamento che il genitore ha verso il proprio
figlio, ecc.
In questi casi, il bambino nasce e cresce su
un terreno vacillante, dove lo spazio per i suoi bisogni risulta ridotto e dove matura l'incertezza nell'essere visto e protetto da parte del genitore.
Da
qui, deriva un senso di solitudine profonda, la paura di esporsi, un vuoto e una fragilità di fondo che potranno
andare a caratterizzare la sua personalità.
Egli tenderà ad alzarsi sulle proprie
gambe prima del tempo per sopperire a questa situazione e potrà raggiungere l'equilibrio (psico-fisico) con maggiore difficoltà.
Alexander Lowen affermava che questi bambini
iniziano a camminare precocemente, ma mantengono una certa fragilità di fondo.
Può accadere di sviluppare una maturità precoce, unita a bisogni infantili che non sono stati soddisfatti: due facce della stessa medaglia.
Più è grande la mancanza di conferma e
riconoscimento nell'infanzia, più queste verranno ricercate assiduamente nella
vita adulta; così, dietro a determinati comportamenti si andrà a ricercare la
conferma al proprio diritto di esistere:
“io sono” se tu mi vedi, “io valgo” se tu mi incoraggi,
“io scelgo” se mi dai il tuo consenso.
Quando nella propria infanzia non ci si è
sentiti riconosciuti e compresi, si potrà avere difficoltà in futuro a darsi
riconoscimento, ad intercettare i propri bisogni ed emozioni, a gestire e sostenere delle scelte. La vita
appare più dura da affrontare, ci si sente particolarmente insicuri, suscettibili, esposti. Si potrà avere difficoltà a trovare il proprio spazio, a scegliere i
luoghi in cui sentirsi a proprio agio; ci potrà sentire inadatti alla
situazione, sentirsi di troppo o al contrario sentirsi invisibili, aver timore
di “disturbare”. Potrà echeggiare il seme di un senso di esclusione primordiale
e una profonda solitudine che si vanno a concretizzare in varie circostanze,
come nelle relazioni personali. Risuonerà l’anelito a raggiungere un posto
sicuro e quel calore famigliare di cui si sente una forte mancanza.
Queste riflessioni non vogliono additare
il genitore e le sue ragioni, ma tendono a non disconfermare una realtà scomoda e dolorosa.
Prenderla in considerazione consente di affrontarla. Comprendere cosa è mancato
e come la personalità si è andata a strutturare in conseguenza di ciò,
significa prendere in considerazione la propria vita per andare verso il
cambiamento.
Probabilmente il genitore stesso, a suo tempo, aveva vissuto un'esperienza simile.
Probabilmente il genitore stesso, a suo tempo, aveva vissuto un'esperienza simile.
Negare i nodi fondamentali della propria
esistenza non porta a scioglierli. “Far finta che fosse altrimenti” non
cancella ciò che è stato, semmai lo acutizza sotto vari aspetti, come per
esempio rassegnandosi a vivere in maniera parzialmente anestestizzata, sotto
scacco della paura di vivere o ricercando stimoli forti per potersi “sentire”.
Un figlio i cui bisogni non sono stati
intercettati, dovrà costruirsi il terreno fertile in cui esistere, respirare, esprimere. E per
farlo sarà necessario scendere a patti con questi bisogni, dare ascolto alle parti di sè rimaste inascoltate, costruirsi un
dialogo con sè stesso laddove il dialogo con il genitore era venuto a mancare,
scoprire il desiderio di andare incontro a qualcosa, seppur con la paura e con
quel profondo bisogno che fanno capolino.
Dietro un'esistenza timorosa, in punta di
piedi, dietro la fatica di ogni gesto esitante preme una rabbia risanatrice che
urla il proprio diritto alla vita.
Si può essere portati a compensare o a
reprimere il senso di mancanza e di vuoto che derivano da questa mancanze,
cercando strade alternative; si possono ricercare soluzioni immediate, “magiche”,
illusorie, che in realtà non fanno altro che allontanare da sè.
Accettare ciò che è stato e il vuoto che
ne consegue non significa accettare che sarà sempre così, che si rimarrà fermi
e impatanati in questa insoddisfazione di fondo; al contrario, accettare dà la
possibilità di "essere altrimenti" e apre spiragli a qualcosa di diverso.
Ciò significa affrontare. Per
affrontare realmente questo tipo di dolore non esistono scorciatoie. Le
scorciatoie creano spiragli illusori, compensano, e ci si può ritrovare inevitabilmente prima o
poi al punto di partenza. Le cure miracolose e immediate possono portare ad una
salita immediata, seguita da una discesa altrettanto immediata.
La mancanza e il vuoto possono sembrare
intollerabili, ma non alienanti quando vengono accolti.
Quanta ispirazione, creatività e bellezza
possono fiorire da questo. Chi conosce questa mancanza e vi presta ascolto, può
confermare di aver liberato in qualche modo la propria creatività ed è essersi
sentito più pienamente dopo averla espressa.
L'assenza si fa presenza. Essere presenti
al proprio senso di assenza è un passo in più verso l'esistenza. E' un provare
a stare con il proprio bisogno da colmare, senza l'impellenza di agirlo
sull'altro, ma esprimerlo per sé.
Accogliere il vuoto, non aver fretta di riempirlo
o compensarlo, ma semplicemente sentirlo. Accettarlo, dirsi “va bene così
perchè questo è, fa male ma questo è”, consente di prendere maggiore contatto e
confidenza con sé; questo porta a
sentirsi più uniti e completi. E' un accogliere le parti di sé più
scomode, più bisognose, un rimettere insieme i pezzi. Se li escludiamo, anche
la nostra esistenza sarà menomata. Escludere determinate parti di sé rende
incompleti e va a bloccare il proprio movimento “verso...”.
Accettare e accogliere i propri
limiti è un buon modo per liberare le proprie risorse. E' il consenso verso di sé per ciò che si è a
muovere verso l'esterno.
Non ci sono santoni o guru che possano
restituire ciò che era venuto a mancare; non esiste partner che possa farlo.
Occorre darsi il tempo di esistere, respirare, stare, essere presenti a sé,
essere i primi interlocutori di sé stessi.
L'amore verso sè stessi è un percorso di
alti e bassi, che non preme per mete lontane ma che “vive” il presente del
tragitto, nasce e si coltiva nel tempo, si nutre giorno per giorno, si accorge
delle piccole cose che fanno gioire; ciò implica guardarsi in faccia, con i
propri pregi e le proprie mancanze, lasciando cadere le aspettative
irrealistiche, ma nutrendo la convinzione di essere “degni”, degni di esistere
per il solo fatto che “si respira”. L'obiettivo non è laggiù, ma piuttosto è
essere qui adesso.
Avere amore per sé stessi non significa
negare le proprie mancanze e imperfezioni, ma tollerarle.
“Io esisto e ho diritto al mio spazio indipendentemente dalle mie mancanze
e dai miei difetti”.
Questa considerazione avvicina a un
equilibrio nel quale possono convivere le diverse parti di sé.
Creandosi il proprio spazio, sentendolo e
rispettandolo nei propri confini, è possibile regolarlo con lo spazio degli
altri; inoltre, tollerare i propri bisogni consente di tollerare e comprendere
i bisogni degli altri.
L'amore per sé muove all'autoregolazione e
all'armonia nella condivisione con l'esterno.
Allora, lo spazio non è terreno per una
lotta di potere tra vittime e carnefici, ma confine che consente di apprezzare
una reale condivisione con l'altro, senza pretese.
Grazie, davvero chiarificatore per chi, come me, ha già fatto un percorso complesso e faticoso...
RispondiEliminaGrazie Anna, mi fa piacere che questa lettura sia stata buona per te. Ritengo che il percorso "verso di sé" sia un viaggio coraggioso e ammirevole. Buona continuazione
EliminaDa piccolo devo aver sofferto la mancanza di riconoscimento. Solo deduco che sia stato così, perché da piccolo non potevo avere consapevolezza di ciò. Di ciò che ero da piccolo mi resta solo il ricordo di un periodo terribile (infanzia e giovinezza). Un periodo di acuti sensi di solitudine, ancora più acuti quando stavo coi miei amici. Deve essere andato che ad una certa età io mi sono chiuso agli altri, avrei smesso di dire ciò che sentivo, cercando invece di essere e affermare ciò che io indovinavo gli altri si aspettavano da me. E ho vissuto rinchiuso in quell'arrocco fino a 51 anni, ossia due anni fa.
RispondiEliminaCon un atto di resa: "io sono sempre stato disturbato", è iniziata l'uscita dal disturbo.
Grazie per questa tua condivisione, aperta e consapevole. Il coraggio di ammettere una realtà dolorosa e arrendersi alla realtà di ciò che è stato è un passo fondamentale per andare anche in un certo senso a ribaltare una visione, dandosi l'opportunità di cambiare direzione. Accogliendo il proprio nucleo di sofferenza andiamo ad accogliere le parti di noi che in qualche modo non sono state riconosciute e/o abbandonate, in un passaggio che può andare dal compiacere/rispecchiare gli altri ad accogliere noi stessi. Buona continuazione
EliminaSono l ultima di tre figli, mia madre era sempre indaffarata in casa,ricamava per gli altri, ah quanto odiavo quella calma nel ricamare, mi sembrava togliesse spazio a me. Vivo con la paura di non meritare quello che ho costruito con tanta fatica, ho 39 anni e ho l incubo che io possa trasmettere ai miei figli la stessa sensazione, sto lavorando su me stessa senza aiuti, è un percorso molto difficile, ma a volte mi rivedo in mia madre, in quello che dico o che faccio e non mi sopporto. Voglio spezzare la catena con tutte le mie forze e risplendere, abbandonare la paura e il senso di inadeguatezza.
RispondiEliminaCiao Maria, leggo adesso il tuo commento e mi scuso per il ritardo. In quella "calma nel ricamare" sembra esserci moltissimo, anche di "opposto" alla calma, per come tu l'hai vissuto. La comprensione e l'accettazione di tutto ciò che è e che è stato richiede passaggi importanti; e l'espressione della rabbia/ribellione è un passaggio fondamentale, per giungere a una forma di accettazione e perdono che consenta di liberarsi da certi retaggi. E' un percorso complesso, nel quale è contemplata ed è preziosa ogni emozione che si incontra. Se ritieni puoi contattarmi in privato. Buona continuazione
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